Diversità culturali, di genere, di orientamento religioso o sessuale, di etnia, di abilità fisiche o psicologiche sono presenti nei team di qualunque azienda. Per trasformarle da ostacolo a valore, da decenni le risorse umane si occupano anche di diversity management.
Ascolta “Diversity Management: come gestire le diversità in azienda” su Spreaker.
Che cos’è il diversity management
Negli Stati Uniti il concetto di diversity management è conosciuto ormai dagli anni ’80. Messo in pratica dalle multinazionali si è diffuso nel resto del mondo. Racchiude tutte quelle politiche aziendali adottate per valorizzare la diversità come elemento utile alla crescita.
Buone pratiche inclusive e di gestione della diversità non sono solo importanti da un punto di vista etico e positive per la produttività, hanno anche un impatto rilevante sull’Employer Branding e quindi sull’acquisizione e il mantenimento di talenti.
E infatti diverse ricerche e sondaggi, fra cui quelli del network PwC e di Glassdoor, confermano che per i candidati le politiche di gestione della diversità sono un elemento importante per decidere se accettare un’offerta di lavoro o meno.

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I diversi approcci alla gestione della diversità in azienda
Le aziende che si sono attivate da questo punto di vista lo hanno fatto ciascuna a modo suo, non ci sono regole uguali per tutti. Però possiamo provare a vedere insieme quali sono le strade più comuni.
Cominciamo dalla strada più facile e meno utile: alcune aziende si occupano di certi argomenti solo per migliorare la propria immagine. In questi casi è raro che le politiche siano poi efficaci, basta che all’esterno si percepisca che ci sono.
Poi ci sono quelle che si autoregolamentano prevedendo delle quote di genere o di etnia o di altro. Come le quote rosa, per esempio. È un approccio semplicistico che di sicuro garantisce la diversità ma non è detto che sia efficace.
Un’altra via è quella di creare una cultura aziendale basata sulla conoscenza, sulla tolleranza e sulla promozione della diversità. Non è facile riuscirci perché ogni dipendente deve essere guidato in un lavoro di introspezione. Ma è un metodo efficace perché consente a tutti di avere le stesse opportunità di crescita e carriera all’interno dell’azienda.
Un altro approccio è quello che mira a rimuovere qualsiasi tipo di barriera per massimizzare la performance di tutti i dipendenti. In questo caso i sistemi di gestione devono creare un ambiente di lavoro in cui tutti si sentano a proprio agio, sicuri di sé e inclusi. Ed è fondamentale che i dipendenti siano trattati come individui e non come parte di gruppi specifici.
Molte aziende poi decidono di fare formazione sulla diversità. Spesso però si tratta di training formali, basati più che altro sulla riduzione dei pregiudizi, che non portano grandi risultati. Alcuni ricercatori universitari hanno condotto uno studio su alunni di college e hanno individuato una migliore opzione nel cosiddetto sensitivity training.
Questo metodo insegna ai partecipanti ad essere più attenti agli altri e più sensibili alle dinamiche di gruppo. Si lavora sulla prospettiva, nel senso che si chiede ai dipendenti di mettersi nei panni delle altre persone considerate diverse. E si lavora anche sugli obiettivi: per esempio si chiede alle persone di porsi come obiettivo di affrontare eventuali commenti inappropriati su qualche minoranza del gruppo.
I ricercatori hanno verificato che gli effetti del lavoro sulla prospettiva erano ancora efficaci dopo otto mesi dalla conclusione dello studio. Mentre il lavoro sugli obiettivi ha portato a ottenere comportamenti e atteggiamenti pro-diversità.
Quando si fa sensitivity training in azienda, è fondamentale coinvolgere tutti i dipendenti ed è utile che ai manager venga fatta un’ulteriore formazione specifica.
Altri spunti interessanti arrivano sempre dalla verifica sul campo, questa volta della University Corporation for Atmospheric Research che ha testato e affinato un suo diversity training.
Dopo tre anni di sperimentazione la UCAR è giunta alla conclusione che gli elementi chiave di un buon programma sono 5:
- concentrarsi sulle azioni concrete e non sulla riduzione del pregiudizio;
- coinvolgere tutti i dipendenti e invitarli a promuovere la comunicazione;
- focalizzarsi sulle questioni professionali e non spostarlo su quelle personali;
- mantenere attivo il programma, prevedendo dei diversity manager e magari delle azioni di mentoring;
- essere flessibili e capaci di adattare le attività alle esigenze specifiche, perché ciascuna azienda — e anche ciascun gruppo di dipendenti — ha le proprie necessità.
Anche Pinterest, il sito di visual bookmarking, ha puntato molto sulla diversità, soprattutto di genere. Nel 2016 i vertici si erano posto l’obiettivo di aumentare le donne ingegnere del 16% e alla fine dell’anno hanno verificato che non ce l’avevano fatta.
Da questa esperienza hanno imparato che porsi degli obiettivi di diversità non è sufficiente: vanno anche comunicati e spiegati più volte. Per questo poi hanno creato un manuale e un programma di formazione per i manager sulla la leadership inclusiva.
Anche lavorare sulla cultura aziendale aiuta. Perché crea un senso di appartenenza che funziona da collante e facilita l’abbattimento delle barriere culturali.
Cosa fanno le aziende in termini di diversità e inclusione
Contact Energy, un’azienda neozelandese del settore energetico, è al primo posto del Diversity & Inclusion Index 2017 stilato da Thomson Reuters.
I punteggi della classifica vengono assegnati tenendo conto delle politiche e attività di 4 macro aree: Diversity, Inclusion, People Development e News & Controversy.
Contact Energy ha ottenuto 84.25 punti su 100 per il suo lavoro sull’inclusione di diversi generi, etnie ed età e per l’impegno sul compenso equo e sulla flessibilità. L’azienda ha una policy specifica che viene rivista e corretta ogni anno in base alla performance.
Prima di passare ai casi italiani, vediamo qualche dato sulla situazione del nostro paese. L’ultima ricerca del Diversity Management Lab di SDA Bocconi, che risale a dicembre 2014, ci dice che nel campione composto da 150 aziende italiane con più 250 dipendenti solo il 21% aveva adottato politiche di gestione della diversità.
E che il restante 79% si divideva fra un 51% interessato all’adozione di queste politiche e un 29% non interessato. La percentuale di chi ha già delle policy sale al 46% se si considerano le imprese con oltre 1.000 dipendenti.
Insomma, se la cavano meglio le grandi aziende, i gruppi e le multinazionali, probabilmente perché hanno già delle politiche e delle pratiche sviluppate nella casa madre.
Sembra confermarlo anche la statistica del Top Employers Institute secondo cui il 69% delle aziende da loro certificate ha dei programmi di gestione della diversità. E si tratta appunto di grandi organizzazioni.
Passando agli esempi italiani, cominciamo con IBM Italia che ha delle policy articolate per valorizzare la diversità. Una delle azioni messe in campo è stata la creazione del teamMWA nel 2006. MWA sta per mobile wireless accessibility e il team promuove l’inclusione e il coinvolgimento nell’attività lavorativa delle persone diversamente abili e non.
Sempre IBM, insieme a Micron, Axia e Intesa Sanpaolo, ha ottenuto il Dyslexia Friendly Corporate, premio assegnato dalla Fondazione Italiana Dislessia a quelle aziende che lavorano sull’inclusione delle persone con dislessia.
E Intesa Sanpaolo già nel 2014 ha firmato un “Protocollo quadro sull’inclusione e le pari opportunità” per eliminare le discriminazioni e rafforzare il senso di appartenenza.
Sono tante anche le aziende socie di Parks, associazione di datori di lavoro che promuove il diversity management legato all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Fra loro c’è di nuovo IBM, ma anche TIM, SANOFI, il Politecnico di Milano e altri ancora.
Poi c’è Cassa Padana — banca di credito cooperativo che opera in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto — che negli ultimi anni ha scelto di formare e poi assumere alcuni migranti di seconda generazione.
In un’intervista il direttore generale della banca, Andrea Lusenti, ha detto che è una decisione normale perché Cassa Padana opera in un territorio in cui la popolazione straniera è davvero tanta.
Lusenti ha aggiunto che quei dipendenti sono preziosi nelle relazioni con i clienti migranti perché semplificano le comunicazioni e aiutano a capire i loro bisogno. E in effetti promuovere la diversità in azienda non vuol dire solo permettere a tutti di poter crescere e fare al meglio il proprio lavoro, vuol dire anche migliorare la capacità di rapportarsi con un mercato che è diverso e variegato.
Insomma, la gestione della diversità è un argomento complesso e non c’è un manuale che ci dica come dobbiamo comportarci. Ogni azienda dovrà sperimentare e trovare la sua strada.

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